La domanda è assolutamente retorica, la risposta scontata direi. Eppure non sempre i grandi tengono conto della capacità precoce di apprendimento dei bambini. Soprattutto quando sono piccoli, perché si sottovaluta la plasticità e pregnanza della loro mente.

L’imitazione è un processo cognitivo e agisce su due piani, quello conscio e quello inconscio.  Nei suoi studi sullo sviluppo del neonato, lo psicologo Jean Piaget aveva già osservato come i piccoli imparino in fretta a rispondere per imitazione (Piangi? Piango. Ridi? Rido.), già a 2 mesi riescono a imitare gesti anche senza aver ben chiaro a cosa servano. Più crescono, più i bambini imitano gli adulti e si specializzano nel loro imitare, dando un significato a quanto agiscono, imparando a cosa serve un gesto piuttosto che un altro. Imitando prendo il mio posto nell’ambiente, so di agire in sintonia con esso.

E per gli adulti?

Anche per gli adulti vale lo stesso, nella misura in cui ci si approccia ad un ambiente nuovo e si sente la necessità di creare nuove forme di adattamento; imitando gli altri ci si assicura l’accettazione.

Tutto questo ha pure una base scientifica, una vera e propria scoperta italiana, quella dei neuroni specchio: il loro funzionamento permette di azionare un meccanismo di comprensione, grazie al quale le azioni eseguite dagli altri, captate dai sistemi sensoriali, sono automaticamente trasferite al sistema motorio dell’osservatore, permettendogli così di avere una copia motoria del comportamento osservato, quasi fosse lui stesso a eseguirlo. Essi funzionano come veri mediatori dell’esperienza sociale.

Pertanto la portata dell’imitazione del comportamento altrui è elevatissima, soprattutto se consideriamo il valore educativo dello stesso comportamento adulto, ovvero non possiamo chiedere al bambino di assumere un certo atteggiamento se esso non ci appartiene, in quanto il nostro dire risulterà agli occhi del bambino incoerente con quello che osserva in noi stessi.