Mi contatta un giovane studente universitario, distinto ed educato, la sua persona sprigiona delicatezza, come se avesse attenzione nel dialogare per timore di sembrare inopportuno. Il suo essere schivo inizialmente non facilita la terapia, la quale si nutre voracemente dei racconti, delle parole, delle storie del paziente. Con pazienza lo guido a fidarsi sempre più di me, del setting, dei miei suggerimenti, gradualmente si lascia andare, si lascia guidare.

Il suo problema sono i pensieri che egli stesso produce e che lo fagocitano, lo divorano e ossessionano. Si tratta di un vortice da cui si sente immobilizzato, come se non avesse potere su sé stesso. Ha bisogno di riacquisire potere sulle proprie capacità, desìodi riprendere in mano quanto di più autentico possiede, sé stesso.

Trovare la tregua

Inizialmente è importante gestire il sintomo, dare tregua alla mente stanca di martoriarsi, di autodistruggersi, simultaneamente inizia anche quel lento lavoro di ricostruzione di quello che è stato ed ha portato alla formazione del sintomo. Raccontare, ricostruire, interpretare, rivivere sono fondamentali per comprendere, analizzare, ricomporre i pezzi di un puzzle incompleto. Ecco che vengono fuori sempre più elementi, il tutto si ricrea, il quadro ha un suo senso globale, la vita può tornare a scorrere come prima, ma bisogna ricostruire prima, ricostruire quello che è andato perduto o che ha subito danni. La psicoterapia comincia a ricucire, a tessere le trame più profonde che daranno più  sostegno al sé danneggiato.

Questa la tregua dell’ossessivo, una tregua difficile ma necessaria, imponente ma essenziale; spingersi fuori dai soliti circuiti e spezzare le catene del vizioso è condizione necessaria per poter star meglio. Una lettura globale aiuta molto, una visione d’insieme è necessaria per poter ridimensionare il sintomo ma anche comprendere le sue radici più profonde.